Due settimane fa, ricevo la convocazione ad un colloquio come responsabile di una libreria. Vengono selezionati ottanta curricula su mille, esattamente mille, inoltrati a seguito della lettura dell’annuncio. Il mio è tra quelli scelti. Ci dividono in gruppi di quaranta persone. Io sono nel secondo gruppo e mi presento, come indicato nella mail, alle 15 di sabato pomeriggio. La selezione - oltre alla prima scrematura realizzata in funzione del c.v. - si articola in due fasi: colloquio orale e simulazione pratica, da sostenersi in coppia. Cinque ore di valutazione, ad opera delle risorse umane, che manco Obama alla Presidenza degli Stati Uniti d’America. Alla fine, sarebbero state assunte tre persone soltanto che, in sincrono, avrebbero dovuto curare la libreria. Quel giorno, a parte me, c’erano professionisti di ogni ordine e grado: insegnanti di latino, pianisti, life coach, programmatori economici aziendali.
Il candidato ideale è appassionato di arte e letteratura, intraprendente, proattivo, entusiasta, con un’ottima padronanza della lingua italiana ed una discreta dimistichezza con gli strumenti grafici ed informatici. Ho paura. Sono la più piccola in un gruppo di adulti preparatissimi ed altamente qualificati. Quando mi sono trasferita a Roma mi è parso chiaro, fin da subito, che, se in altre città d’Italia la competizione è di uno a cento, nella Capitale la soglia si alza in maniera esponenziale. La concorrenza è spietata. La voglia di vincere pure.
Sostengo il colloquio orale e tiro fuori la parte più bella di me, la più autentica. Quando mi chiedono per quale motivo dovrebbero scegliermi, la bocca si muove prima ancora che la mente abbia formulato il pensiero: “Perché l’amore per i libri non si inventa”, rispondo. Non ci si improvvisa lettori. Il mio interlocutore sorride e, con una leggera pacca sulla spalla, mi chiede di restare per la simulazione pratica. Alcuni dei presenti vanno giù come birilli dopo la prima fase. Altri sopravvivono e rimangono in gioco.
Aspetto fino alle otto di sera e, nel mentre, lego con una ragazza cagliaritana di 38 anni, una formatrice aziendale trasferitasi a Roma per amore e disposta, per amore, a reinventarsi. E’ una donna speciale, lo si percepisce chiaramente. Piena di splendida fede nella vita e nella parte buona del mondo. Decidiamo di sostenere insieme la simulazione. Le sole due donne, in un gruppo di ottanta persone, che fanno squadra invece di farsi la guerra, sovvertendo le regole statiche del colloquio e dividendosi equamente meriti e responsabilità. Cinque giorni dopo ci richiamano entrambe. Il lavoro è nostro. Peccato che si tratti di un lavoro completamente diverso rispetto a quello per il quale ci siamo candidate: vogliono me come Presidente dell’Associazione Culturale e Sara come Responsabile Marketing. E ci potremmo pure stare, se non fosse per il contratto a progetto che è soltanto un’ombra lontana ed impalpabile ed uno stipendio sul quale non si pronunciano poiché non sanno esattamente quanto e come fare a pagarci.
In questa Italia sfiancata e difficile, troppo spesso è necessario godere della compiacenza di una ruffianissima lettera di raccomandazione per trovare lavoro. Le multinazionali fingono colloqui aziendali, riciclando gli interni. E mente sapendo di mentire chi sostiene il contrario. Eppure esiste anche un’altra Italia. Un’Italia ostinata e bellissima, fatta di gente preparata. Persone forti, volitive, mordaci, coraggiose. Persone che brillano e si elevano al di sopra di un manipolo di mediocri e di corrotti. A queste persone va il mio augurio di speranza, ardimento e quotidiano eroismo.
Non pronuncerò parole di rabbia o di scoramento. Poiché ho deciso, da tempo, di schierarmi sul versante buono della vita e, in questa precisa circostanza, ho guadagnato un’amica come Sara. “Davanti all’impedimento, lo stolto indietreggia e il saggio gioisce perché sa che nella difficoltà si cela l’opportunità”. E se è vero come è vero che la vita è il risultato delle azioni che poniamo in essere e delle credenze profonde a cui ci ispiriamo, allora è nostro il potere, e nostra la responsabilità, di cambiare questo stato di cose fallato e fallace, che ci vuole perdenti ad ogni costo o venduti senza speranza. Ogni volta che una storia come quella che ho raccontato passa sottobanco, nel silenzio consenziente dell’arrendevolezza, un pezzo del nostro futuro muore. Strozzato dalla corda dell’ignavia. Per questo vi chiedo: non cedete al ricatto delle mezze misure e sappiate fare la differenza in quella parte di mondo che vi è toccata. Siate, come diceva Gandhi, il cambiamento che desiderate vedere negli altri.