sabato 21 gennaio 2012

Improvvisa parentesi emozionale.

Avevo quattordici anni. Quindici al massimo. Ero in terza liceo e l'insegnante di inglese ci assegnò un compito preciso: scrivere una poesia sulla persona più importante, in assoluto.

La mia poesia, recitava così.

"Esiste un uomo, a questo mondo, il cui sguardo, umile e sincero, comunica molto più di quanto possano fare mille parole.
Sul suo volto, talora un po' crucciato, inizia ad affiorare qualche ruga.
Indossa abiti modesti, mai appariscenti.
Ogni dì, al levar del sole, prima di andare a lavoro, da' un bacio ai suoi figli e raccomanda loro di comportarsi rettamente.
Parla poco. Ascolta tanto.
E' nobile nell'animo, ed è sempre pronto ad aiutarmi.
Asciuga le mie lacrime, e mi sprona ad andare dritta per la mia strada.
Ora è lontano, ma i suoi insegnamenti li porto scolpiti nell'anima".

Sono passati tanti anni da quel giorno. Oggi so che mio padre è umile, si. Ma la sua umiltà nasce dall'incrollabile fiducia in sé stesso, e nei propri talenti.
Le rughe del suo volto non sono solo figlie dell'incedere implacabile del tempo. Sono, assai più probabilmente, la mappa sulla quale è disegnata la geografia della sua storia. Se la guardi bene, puoi leggerci le aspettative disattese, gli errori mai sanati, l'impossibilità di tornare indietro, e cambiare certe cose. Forse non tutte. Forse non troppe. Sicuramente alcune. Sicuramente importanti.
Ogni mattino, assai prima che il sole si stiracchi sornione, e lento faccia la sua regale entrata, da' un bacio ai suoi figli, e le parole che sussurra loro sono le stesse da anni: "Statt' accort'".
Ascolta, si. Ma non sempre. Non incondizionatamente. Se quello che sente non gli piace, fa orecchie da mercante. Certi suoni gli arrivano appannati. Come un'eco lontana, che si confonde nel vuoto, e nel vuoto si perde.
Parla poco. Ma non sempre le sceglie bene, le sue parole. Qualche volta le lancia in aria, come un giocoliere inesperto e, incapace di riprenderle al volo, le vede cadere a terra rovinosamente. Ogni parola caduta ha i contorni perfetti di una ferita. Lascia un buco sul cuore. Il mio.
Mi ha aiutata come poteva, quando poteva, nel modo che reputava essere più giusto. E mi ha spronata a camminare dritta, ogni giorno, tutti i giorni. Ma lungo una strada che, nel tempo, ho scoperto essere più sua, che mia.
La mia strada aveva anche sentieri di ciottoli, viali alberati, un fiumiciattolo da guadare, un lago cristallino in cui bagnarsi, una staccionata bianca - come in certe pubblicità - qualche tramonto, molte albe, vette faticose, curve, dossi, pianure e vallate, comparse, passanti, compagni, amici, amanti, amori.
La sua strada, invece, è un manto, dritto ed in salita, di pece e di asfalto. Non c'è spazio per la fantasia. I sogni sono morti. Investiti da un tir. Quello del cinismo.
Ai suoi insegnamenti ho aggiunto i miei. Ho scoperto che l'anima mia è grande abbastanza per contenerli entrambi.
Lo amo. Più di quanto le parole sappiano dire, o i fatti raccontare. Lo amo più di quanto abbia mai capito. Ma è faticoso vivere per soddisfare le altrui attese. E' lì che fallisci. Inevitabilmente. E' lì che cadi. Provando a danzare ad un ritmo che non è il tuo.
Amare lui non può più voler dire annientare me stessa, o sentirmi in colpa se i suoi sogni non sono anche i miei.

Io volevo solo che mi accettasse così come sono. E non è poi tanto scontato.

Tutti, ma proprio tutti, la volevano. Dicevano. Urlavano. Giuravano. Spergiuravano. Decantavano, in ogni forma, desiderio di lei ed amore incondizionato. Un brulichio di parole bellissime, di quelle che ti toccano il cuore, alle quali, però, seguiva puntualmente una frase: "Non è abbastanza." E lei continuava a rimanere da sola. Lusingata. Bellissima. E sola.
Aveva imparato a bastare a sé stessa. Ma a quale prezzo?
Poi, un giorno, un giorno qualunque, uno fra tanti, arrivò lui e, nel silenzio più assoluto, il silenzio delle cose vere in un mondo difficile, la prese per mano e la portò via con sé.
Da allora, non fu sola mai più.

Se lo raccontava ogni sera, prima di andare a dormire.