martedì 29 dicembre 2015

Nonno Carlo

Nonno Carlo è morto quando avevo sei anni. Era il padre di mio padre.
Il giorno dei funerali, mi portarono a casa di Nonno Gennaro e Nonna Rosina, i genitori di mia madre, così che non presenziassi ad un momento troppo difficile da sublimare per una bambina di soli sei anni.
Quando rientrai, a pomeriggio inoltrato, trovai mio padre sdraiato di sbieco, con le scarpe penzoloni fuori dal letto, vestito di scuro. Leggeva un manuale di istruzioni. O, probabilmente, lo sfogliava soltanto. Vedendomi, mi accolse dicendo: "Oggi mio padre è morto, e tu non c'eri".
Non so se questa cosa, papà, ricorda di avermela detta. Io, però, me la sono portata appresso da allora, per i successivi ventitré anni. La sentivo riecheggiarmi dentro come un severissimo rimprovero, per giunta immeritato. Cosa potevo saperne io, della morte, a soli sei anni? Io, che mi stavo appena affacciando alla vita e del mondo non conoscevo ancora nulla. Mi avevano detto di andare a casa dei nonni materni e l'avevo fatto. Avevo ubbidito. Perché, allora, venivo biasimata?

Poi, qualche sera fa, sotto la doccia, un guizzo improvviso mi ha attraversato la testa bagnata. Il giorno della morte di Nonno Carlo, mio padre aveva trentadue anni. O giù di lì. Appena tre in più rispetto a quanti ne ho io adesso.
Nell'immaginazione - certe volte impudente e meschina - dei figli, i genitori sono sempre stati adulti. Sono nati grandi.
Per me, ad esempio, mio padre ha sempre avuto cinquantacinque anni, come oggi. Anche quando ne aveva venti. O ventisei. O trentadue. Quasi che non riuscissi a vedere l'uomo dietro il padre, o la ragazza con la gonna a ruota e i fianchi stretti prima che diventasse mamma.
Perché immaginarli giovani significa vederli umani per la prima volta. E percepirli umani vuol dire ammettere che non sono infallibili. Che possono cadere. Possono sbagliare. Possono persino morire.
Un figlio fa fatica a perdonarle certe umanità.

Perciò, soltanto adesso capisco che mio padre perdeva suo padre mentre imparava a diventare mio padre. E quel: "Oggi mio padre è morto e tu non c'eri" non era affatto un rimprovero. Al contrario, era il suo modo, dolorante e sofferto, di aggrapparsi a me, alla persona più importante della sua vita, mentre un altro pezzo di vita veniva dato alla terra e alla polvere.
Perciò, quando tornerò a casa, mi siederò a tavola e dirò a mia madre e a mio padre: "Raccontatemi chi siete".

E' questo l'unico vero proposito che ho per il nuovo anno. E per quelli futuri.

Antonia Storace

mercoledì 2 dicembre 2015

Di figli e coperte

Certi gesti li fanno le madri.
Piegare le coperte è uno di questi.
Lei ne afferra la cima da un lato, tu la prendi dall'altro e, quando la stoffa è squadernata a mestiere, la piegate, per lungo, nelle due prime metà. Non paghi, ripetete la scena, come due commedianti sulle travi di legno di un palco, fino ad ottenere una benda liscia, tesa e senza ombre.
Ci si allontana il più possibile per conquistare un risultato decente e non dover cominciare ogni cosa da capo. Ci si stacca di netto. Ciascuno dalla sua parte. Come quando vieni al mondo e abbandoni, di colpo, quella culla calda e liquida che era la pancia.
Poi sopraggiunge l'epilogo, l'atto finale: il figlio, con il suo lembo di coperta stretto tra le mani, si avvicina alla madre. Lei resta ferma, aspetta paziente che lui copra le necessarie distanze e, quando finalmente arriva, raccoglie entrambe le estremità, se le porta all'altezza del petto e piega la stoffa per l'ultima volta, usando lo sterno come base d'appoggio. Lì, nello stesso punto in cui anche la sua testa di bimbo s'appoggiava, col naso gocciolante e i capelli sparati, prima che diventasse troppo alto per ricordarselo.
Quel punto lì, di sterno e coperte, è punto d'approdo di ogni bene.
Certi gesti li fanno le madri.
Accogliere e raccogliere figli e lenzuola, ad esempio.

Antonia Storace

Copyright 2 Dicembre 2015