Io non sarò mai una donna da "niente carboidrati dopo le 18": mi piacciono le spaghettate aglio olio e peperoncino a l'una di notte e, praticamente ad ogni pasto, mi verso addosso quello che sto mangiando perché la mia coordinazione braccio-bocca è pessima.
Non mi trucco per andare in palestra e, nel cassetto delle mutande, accanto alle autoreggenti e ai body in pizzo nero, ho una scorta di calzettoni in pile, ultraresistenti, alcuni dei quali maculati: perché la stoffa pezzata mi ricorda il manto del mio cagnolino adorato. E ne vado fiera. Molto fiera.
Non so mettermi in posa davanti alla macchina fotografica. Gli sguardi seducenti - con labbra socchiuse, capello selvaggio e 189 filtri di correzione - funzionano solo sulle altre: io sembro una cretina, e preferisco fare la donna invece che la gatta morta molto viva.
Non mi sparo selfie nei bagni pubblici dei ristoranti, abbarbicata come una scimmia sopra il lavandino, e non li invio ai miei ex uomini. Specie se sono fidanzati.
Ho delle tette magnifiche, scrivo con i capelli sollevati in una crocchia casuale sopra la testa e soffro di una malsana tendenza a mettere in mostra il cervello.
Non ballo il tango, non tiro di scherma, non mi definisco nevrotica perché fa tendenza, non cito autori stranieri per apparire colta, non propongo corse dentro i carrelli Ikea per sentirmi alternativa: qualche volta ho lo smalto sbeccato sopra le unghie, detesto i cinici e le borse, ho forti dubbi sul fatto di sembrare sexy pure quando dormo, e sono fermamente convinta che fare l'amore c'entri molto poco con la simulazione meccanica di pose pornografiche: una donna capace di fare bene l'amore, è una donna in grado di rendere ogni volta diversa dalla precedente.
Antonia Storace
sabato 5 marzo 2016
martedì 29 dicembre 2015
Nonno Carlo
Nonno Carlo è morto quando avevo sei anni. Era il padre di mio padre.
Il giorno dei funerali, mi portarono a casa di Nonno Gennaro e Nonna Rosina, i genitori di mia madre, così che non presenziassi ad un momento troppo difficile da sublimare per una bambina di soli sei anni.
Quando rientrai, a pomeriggio inoltrato, trovai mio padre sdraiato di sbieco, con le scarpe penzoloni fuori dal letto, vestito di scuro. Leggeva un manuale di istruzioni. O, probabilmente, lo sfogliava soltanto. Vedendomi, mi accolse dicendo: "Oggi mio padre è morto, e tu non c'eri".
Non so se questa cosa, papà, ricorda di avermela detta. Io, però, me la sono portata appresso da allora, per i successivi ventitré anni. La sentivo riecheggiarmi dentro come un severissimo rimprovero, per giunta immeritato. Cosa potevo saperne io, della morte, a soli sei anni? Io, che mi stavo appena affacciando alla vita e del mondo non conoscevo ancora nulla. Mi avevano detto di andare a casa dei nonni materni e l'avevo fatto. Avevo ubbidito. Perché, allora, venivo biasimata?
Poi, qualche sera fa, sotto la doccia, un guizzo improvviso mi ha attraversato la testa bagnata. Il giorno della morte di Nonno Carlo, mio padre aveva trentadue anni. O giù di lì. Appena tre in più rispetto a quanti ne ho io adesso.
Nell'immaginazione - certe volte impudente e meschina - dei figli, i genitori sono sempre stati adulti. Sono nati grandi.
Per me, ad esempio, mio padre ha sempre avuto cinquantacinque anni, come oggi. Anche quando ne aveva venti. O ventisei. O trentadue. Quasi che non riuscissi a vedere l'uomo dietro il padre, o la ragazza con la gonna a ruota e i fianchi stretti prima che diventasse mamma.
Perché immaginarli giovani significa vederli umani per la prima volta. E percepirli umani vuol dire ammettere che non sono infallibili. Che possono cadere. Possono sbagliare. Possono persino morire.
Un figlio fa fatica a perdonarle certe umanità.
Perciò, soltanto adesso capisco che mio padre perdeva suo padre mentre imparava a diventare mio padre. E quel: "Oggi mio padre è morto e tu non c'eri" non era affatto un rimprovero. Al contrario, era il suo modo, dolorante e sofferto, di aggrapparsi a me, alla persona più importante della sua vita, mentre un altro pezzo di vita veniva dato alla terra e alla polvere.
Perciò, quando tornerò a casa, mi siederò a tavola e dirò a mia madre e a mio padre: "Raccontatemi chi siete".
E' questo l'unico vero proposito che ho per il nuovo anno. E per quelli futuri.
Antonia Storace
Il giorno dei funerali, mi portarono a casa di Nonno Gennaro e Nonna Rosina, i genitori di mia madre, così che non presenziassi ad un momento troppo difficile da sublimare per una bambina di soli sei anni.
Quando rientrai, a pomeriggio inoltrato, trovai mio padre sdraiato di sbieco, con le scarpe penzoloni fuori dal letto, vestito di scuro. Leggeva un manuale di istruzioni. O, probabilmente, lo sfogliava soltanto. Vedendomi, mi accolse dicendo: "Oggi mio padre è morto, e tu non c'eri".
Non so se questa cosa, papà, ricorda di avermela detta. Io, però, me la sono portata appresso da allora, per i successivi ventitré anni. La sentivo riecheggiarmi dentro come un severissimo rimprovero, per giunta immeritato. Cosa potevo saperne io, della morte, a soli sei anni? Io, che mi stavo appena affacciando alla vita e del mondo non conoscevo ancora nulla. Mi avevano detto di andare a casa dei nonni materni e l'avevo fatto. Avevo ubbidito. Perché, allora, venivo biasimata?
Poi, qualche sera fa, sotto la doccia, un guizzo improvviso mi ha attraversato la testa bagnata. Il giorno della morte di Nonno Carlo, mio padre aveva trentadue anni. O giù di lì. Appena tre in più rispetto a quanti ne ho io adesso.
Nell'immaginazione - certe volte impudente e meschina - dei figli, i genitori sono sempre stati adulti. Sono nati grandi.
Per me, ad esempio, mio padre ha sempre avuto cinquantacinque anni, come oggi. Anche quando ne aveva venti. O ventisei. O trentadue. Quasi che non riuscissi a vedere l'uomo dietro il padre, o la ragazza con la gonna a ruota e i fianchi stretti prima che diventasse mamma.
Perché immaginarli giovani significa vederli umani per la prima volta. E percepirli umani vuol dire ammettere che non sono infallibili. Che possono cadere. Possono sbagliare. Possono persino morire.
Un figlio fa fatica a perdonarle certe umanità.
Perciò, soltanto adesso capisco che mio padre perdeva suo padre mentre imparava a diventare mio padre. E quel: "Oggi mio padre è morto e tu non c'eri" non era affatto un rimprovero. Al contrario, era il suo modo, dolorante e sofferto, di aggrapparsi a me, alla persona più importante della sua vita, mentre un altro pezzo di vita veniva dato alla terra e alla polvere.
Perciò, quando tornerò a casa, mi siederò a tavola e dirò a mia madre e a mio padre: "Raccontatemi chi siete".
E' questo l'unico vero proposito che ho per il nuovo anno. E per quelli futuri.
Antonia Storace
mercoledì 2 dicembre 2015
Di figli e coperte
Certi gesti li fanno le madri.
Piegare le coperte è uno di questi.
Lei ne afferra la cima da un lato, tu la prendi dall'altro e, quando la stoffa è squadernata a mestiere, la piegate, per lungo, nelle due prime metà. Non paghi, ripetete la scena, come due commedianti sulle travi di legno di un palco, fino ad ottenere una benda liscia, tesa e senza ombre.
Ci si allontana il più possibile per conquistare un risultato decente e non dover cominciare ogni cosa da capo. Ci si stacca di netto. Ciascuno dalla sua parte. Come quando vieni al mondo e abbandoni, di colpo, quella culla calda e liquida che era la pancia.
Poi sopraggiunge l'epilogo, l'atto finale: il figlio, con il suo lembo di coperta stretto tra le mani, si avvicina alla madre. Lei resta ferma, aspetta paziente che lui copra le necessarie distanze e, quando finalmente arriva, raccoglie entrambe le estremità, se le porta all'altezza del petto e piega la stoffa per l'ultima volta, usando lo sterno come base d'appoggio. Lì, nello stesso punto in cui anche la sua testa di bimbo s'appoggiava, col naso gocciolante e i capelli sparati, prima che diventasse troppo alto per ricordarselo.
Quel punto lì, di sterno e coperte, è punto d'approdo di ogni bene.
Certi gesti li fanno le madri.
Accogliere e raccogliere figli e lenzuola, ad esempio.
Antonia Storace
Copyright 2 Dicembre 2015
Piegare le coperte è uno di questi.
Lei ne afferra la cima da un lato, tu la prendi dall'altro e, quando la stoffa è squadernata a mestiere, la piegate, per lungo, nelle due prime metà. Non paghi, ripetete la scena, come due commedianti sulle travi di legno di un palco, fino ad ottenere una benda liscia, tesa e senza ombre.
Ci si allontana il più possibile per conquistare un risultato decente e non dover cominciare ogni cosa da capo. Ci si stacca di netto. Ciascuno dalla sua parte. Come quando vieni al mondo e abbandoni, di colpo, quella culla calda e liquida che era la pancia.
Poi sopraggiunge l'epilogo, l'atto finale: il figlio, con il suo lembo di coperta stretto tra le mani, si avvicina alla madre. Lei resta ferma, aspetta paziente che lui copra le necessarie distanze e, quando finalmente arriva, raccoglie entrambe le estremità, se le porta all'altezza del petto e piega la stoffa per l'ultima volta, usando lo sterno come base d'appoggio. Lì, nello stesso punto in cui anche la sua testa di bimbo s'appoggiava, col naso gocciolante e i capelli sparati, prima che diventasse troppo alto per ricordarselo.
Quel punto lì, di sterno e coperte, è punto d'approdo di ogni bene.
Certi gesti li fanno le madri.
Accogliere e raccogliere figli e lenzuola, ad esempio.
Antonia Storace
Copyright 2 Dicembre 2015
lunedì 23 novembre 2015
Giornata Internazionale contro la violenza sulle Donne
Gli schiaffi non sono carezze.
Mercoledì 25 Novembre - giornata internazionale contro la violenza sulle donne - presso la gelateria e centro policulturale Splash - in via Eurialo 104, Roma - alle 18.00, si terrà un incontro spettacolo, con il patrocinio della Capitale, l'intervento di associazioni attivamente impegnate, le riviste "Noi donne" e "A buon diritto", ed Amnesty International.
L'obiettivo è denunciare una tra le forme di violenza, fisica e psicologica, tra le più subdole ed aberranti che esistano.
Avrò l'onore di prendervi parte anche io, con un mio testo, insieme ad altre meravigliose scrittrici ed attrici, ciascuna delle quali metterà la sua storia, e la sua arte, al servizio di una giusta causa.
Antonia Storace
Mercoledì 25 Novembre - giornata internazionale contro la violenza sulle donne - presso la gelateria e centro policulturale Splash - in via Eurialo 104, Roma - alle 18.00, si terrà un incontro spettacolo, con il patrocinio della Capitale, l'intervento di associazioni attivamente impegnate, le riviste "Noi donne" e "A buon diritto", ed Amnesty International.
L'obiettivo è denunciare una tra le forme di violenza, fisica e psicologica, tra le più subdole ed aberranti che esistano.
Avrò l'onore di prendervi parte anche io, con un mio testo, insieme ad altre meravigliose scrittrici ed attrici, ciascuna delle quali metterà la sua storia, e la sua arte, al servizio di una giusta causa.
Antonia Storace
venerdì 30 ottobre 2015
In questi giorni, ho visto una donna di 62 anni prendersi cura di un uomo di 87, costretto in un letto d'ospedale.
L'ho vista imboccarlo come fosse un bambino, sbucciargli le mele più buone e portargli l'acqua alla bocca con amorevole cura; l'ho guardata inumidirgli le labbra, passargli un panno pulito su quella fronte di nonno che il tempo ha disegnato con la grafite delle sue storie; l'ho vista fare esercizio di pazienza davanti ai capricci e tirarlo su, con le sue braccia esili e il suo coraggio di donna, affinché stesse comodo dentro quelle lenzuola bianche di niente; l'ho osservata mentre parlava con i medici, tenendo dritte le spalle davanti alla diagnosi di una vita che rifugge da ogni fasulla certezza.
In questi giorni, ho visto una donna di 62 anni prendersi cura dell'uomo che le ha insegnato a guardare la linea d'orizzonte dall'alto delle sue spalle; che le ha montato le rotelle alla bicicletta, per farle sicura la strada. E poi gliele ha tolte, quando ha capito che nessuna strada è sicura davvero e le gambe devono farsi forti da sole; un uomo che ti porta all'altare e poi impara a camminarti dietro di un passo, senza farsi vedere, perché le presenze autentiche sono solide e non ingombrano. Quell'uomo che, per tutta la vita, racconti in due sillabe uguali, e ne accenti la coda alla fine, come in un guizzo di fulgida grazia che tende verso l'alto il suono più bello del mondo: papà.
Antonia Storace
L'ho vista imboccarlo come fosse un bambino, sbucciargli le mele più buone e portargli l'acqua alla bocca con amorevole cura; l'ho guardata inumidirgli le labbra, passargli un panno pulito su quella fronte di nonno che il tempo ha disegnato con la grafite delle sue storie; l'ho vista fare esercizio di pazienza davanti ai capricci e tirarlo su, con le sue braccia esili e il suo coraggio di donna, affinché stesse comodo dentro quelle lenzuola bianche di niente; l'ho osservata mentre parlava con i medici, tenendo dritte le spalle davanti alla diagnosi di una vita che rifugge da ogni fasulla certezza.
In questi giorni, ho visto una donna di 62 anni prendersi cura dell'uomo che le ha insegnato a guardare la linea d'orizzonte dall'alto delle sue spalle; che le ha montato le rotelle alla bicicletta, per farle sicura la strada. E poi gliele ha tolte, quando ha capito che nessuna strada è sicura davvero e le gambe devono farsi forti da sole; un uomo che ti porta all'altare e poi impara a camminarti dietro di un passo, senza farsi vedere, perché le presenze autentiche sono solide e non ingombrano. Quell'uomo che, per tutta la vita, racconti in due sillabe uguali, e ne accenti la coda alla fine, come in un guizzo di fulgida grazia che tende verso l'alto il suono più bello del mondo: papà.
Antonia Storace
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