mercoledì 26 gennaio 2011


Se tra noi non ci fosse il silenzio, il necessario silenzio, il silenzio sano, il silenzio scelto, il silenzio che guarisce, il silenzio che spaventa ... ecco, se tra noi non ci fossero tutte queste cose, ti direi che mi manchi. In un modo in cui solo le cose importanti sanno mancare.
Mi manca la sensazione della tua presenza, prima ancora della presenza stessa. Mi manca il timbro della tua voce, quando l'inflessione napoletana ( che non hai perso ) sembra ballare la più buffa delle tarantelle sottobraccio alla cadenza milanese. Mi manca il "bla bla bla" con cui concludi le frasi, quando ti rendi conto di stare diventando logorroico, e che neppure dieci vite moltiplicate per dieci basterebbero a raccontare tutto quello che hai da dire. Mi manca il "buongiorno" alle undici del mattino, che io sono sveglia da cinque ore almeno, ma il giorno diventa buono davvero solo quando tu ti preoccupi per me. Crocerossino al maschile.
Mi manca il filo assurdo delle nostre conversazioni, che se ti dico "verde" tu non mi rispondi "speranza". Perché "speranza" lo direbbero tutti. Ma tu no. Tu mi diresti "codice genetico", "libellule e colibrì", "marmellata di pistacchi", "le foglie dell'albero di gelsomini della signora di fronte". Ed allora io ti racconterei di un film: "Dragon fly, il segno della libellula", in cui Bruce Willis segue la mappa intricata delle coincidenze della vita, che sembrano allontanarlo irrimediabilmente dal suo destino, per ricondurlo, poi, al destino stesso. Quelle coincidenze che - me lo hai insegnato tu - sono l'eco muta dell'anima.
Mi manca quel fare l'amore tutto nostro, che non è amore, non è sesso, non è solo passione, non è solo mente, non è solo pelle. Quel fare l'amore che, prima di essere qualcosa, deve non essere un'infinità di altre cose.
Mi manca l'esclusività. La certezza, un po' superba, un po' modesta, qualche volta spaventosa e spaventata, che certi legami sono, semplicemente, destinati ad essere.


Il posto vuoto lasciato da tutte queste cose che mancano, è stato usurpato da due scomodi inquilini: la paura e l'impotenza. La paura che, un giorno, i tuoi occhi si perderanno nella profondità liquida di altri occhi, prima di aver visto i miei. E non ci saranno centinaia di chilometri di terra bastarda a dividervi. L'impotenza che nasce dalla mera certezza di non poterlo impedire.
Sei come un libro che leggo, ogni volta che vado alla Feltrinelli. Sempre lo stesso libro. Delicatezza. Si intitola così. Delicatezza. E' un bel titolo, no? Non l'ho mai comprato, perché certe cose ci appartengono prima ancora di essere materialmente nostre. Eppure, lui è sempre lì, mi aspetta silenzioso, nel suo dotto angolino, su un polveroso scaffale, tra milioni di altri libri. Lo leggo a puntate. E non importa che passino giorni, settimane, o mesi. Torno ad immergermi tra le pieghe delle pagine con la stessa sintonia del primo giorno, come se non ci fosse stato distacco, separazione. Mi ritrovo, spontaneamente, nello spazio vuoto tra una parola e l'altra. In quello spazio c'è la mia storia. In quello spazio c'è la storia che non ho ancora scritto.
Un giorno, comprerò quel libro. Forse, solo dopo averlo letto tutto. Perché quando qualcosa ti cresce dentro, e dentro mette radici, in un limbo senza nome, senza confini, senza padroni ... vuoi poterlo accarezzare, toccare, respirare. Non ti basta star lì, a guardarlo da lontano.
Ed il possesso, il mero possesso, non c'entra nulla. Si tratta solo di umanità. Fragile, splendida, coraggiosa umanità. Ed io sono così terribilmente umana.

domenica 23 gennaio 2011

A mio padre.


Ti amo Papà. Perché siamo identici in tutto. Carattere forte, e cuore di burro.

Ti amo Papà. Per le cose che hai saputo darmi, e quelle che hai scelto di insegnarmi.

Ti amo Papà. Perché mi hai detto: "Prova. Rischia. Sbagliare è il solo modo che hai per crescere, e diventare donna .. " ...

Ti amo quando ridi con gli occhi. Perché nei tuoi ritrovo i miei stessi occhi.

Ti amo quando non parli, Papà. Perché da te ho imparato che il silenzio è d'oro, e la solitudine un' ottima compagna, se non si temono i propri demoni.

Ti amo Papà. Perché mi hai insegnato che l'ironia è disarmante. La cultura fondamentale. Il cinismo necessario. L'intelligenza un privilegio concesso da Dio. Tu in Lui non credi, Papà. Ma lo preghi in silenzio, quando vedi i tuoi figli soffrire.

Ti amo Papà. Perché il carattere è il mio Destino, e grazie a te ho imparato a difenderlo.

Ti amo Papà. Perché mi hai insegnato che il vero fallimento sta nella rinuncia. Si perde davvero solo quando non si lotta.

Ti amo Papà. E il petto mi si gonfia di orgoglio quando qualcuno mi dice: "Sei identica a tuo padre".

Ti amo Papà. Perché mi spingi ad usare la ragione, senza perdere la fantasia.


Ti amo. Perché mi insegni il pudore delle lacrime, e la dirompenza della gioia.

Ti amo. Perché sei il mio esempio di vita. Il mio mito. Il mio eroe.

Ti amo. E vorrei, un giorno, avere tanti soldi solo per assicurarti una vecchiaia serena.

Ti amo Papà. Ed amando te, imparo ad amare un po' anche me stessa.



Copyright Viola Editrice

lunedì 17 gennaio 2011

La città di carta.

Tocco i libri con le mani. Ne leggo le parole con le dita.
Li annuso. Li osservo. Li vizio. Li corteggio.

Qui, il tempo si ferma. Il moto perpetuo della vita si interrompe. Così. Sospeso. Tra ciò che era un attimo prima, e ciò che adesso non è più. E con lui mi fermo io. Metto sotto chiave i cattivi pensieri, e le inutili ansie. Il cuore si schiarisce. Comincia a pompare sangue con nuova forza, ritrovata energia. Mi pare quasi di vederlo, quel piccolo pugno che è il mio cuore. Lì, sotto il petto. Si contrae. Si distende. Si ricontrae. Ha il colore purpureo del vino. Vino rosso. Dolce. Invecchiato. Leggermente speziato. Retrogusto di vaniglia e cannella. Il mio cuore sa di vaniglia e cannella. Che strano cuore che ho.

Comincio così, un po' per gioco, un po' per caso, a vagare, indisturbata, nel doppio fondo poco frequentato dell'anima. Mi perdo. Mi ritrovo. Mi riconosco. Incontro un'altra me. E poi un'altra ancora. E visi diversi, volti lontani, si prestano nasi, occhi, orecchie, bocche. Li osservo danzare in una parodia di ricordi.

Passeggio tra gli scaffali. Dorsi colorati di libri sconosciuti tracciano i sentieri di una città fantasma, fatta di carta e d'inchiostro.
Dall'angolo infondo arriva l'odore del pane appena sfornato. Lì, proprio lì, deve esserci il chiosco del fornaio. Chissà se fanno anche le focaccine che mi piacciono tanto.

Più a destra, una piccola cappella bianca. E, in alto, il campanile. Una giovane sposa, vestita di sogni, procede fiduciosa verso l'altare. Nel grembo, già culla il seme di quel suo amore bambino.

Mi pare di scorgere anche il porto, in lontananza. Groviglio di anime e braccia. Di navi e lamiere. Di pesce e di terra. Ano del mondo, direbbe qualcuno. Ferita aperta nella carne lacera. Gente che parte, gente che torna, gente che scappa. Da sé stessa. Da ciò che era. Da ciò che non è riuscita a diventare.
E mi viene in mente una vecchia canzone che fa: "Avere negli occhi la voglia di andare, e invece restare. Prigionieri di un mondo, che ci lascia solo sognare. Soltanto sognare .. " ...

Un chiacchiericcio sommesso mi riporta alla realtà. La città di carta, e d'inchiostro, svanisce. Così. In un soffio. E con lei, il chiosco del fornaio. La chiesta. Il mare.
Sono di nuovo nella biblioteca. Il mio rifugio. Il mio nido. Il mio tetto.

Distratta, alzo lo sguardo. E ne incontro un altro. Questione di un attimo.

- "Stai cercando un libro in particolare?" - mi chiede.
- "Sono i libri a cercare me" - rispondo. Poi continuo: "Trovato qualcosa di interessante?"
- "Si, credo di si" - mi dice. Ma non sono certa alludesse al libro.

Ci studiamo in silenzio. Muti duellanti di un'improvvisata schermaglia.

- "Ti va una cioccolata calda?"

Quella domanda, apparentemente fuori contesto, mi strappa un sorriso. Il rito della cioccolata calda mi è sempre piaciuto. Sa di conforto. Tenerezza. Intimità delicata. Fine voluttà.

- "Volentieri" - rispondo. Semplicemente.

Usciamo insieme dalla biblioteca. Nessuno dei due ha preso il libro che cercava. Eppure entrambi sappiamo di aver trovato qualcosa.

Fa freddo fuori. Gli inverni napoletani non sono mai troppo rigidi. Il sole sembra essersi abbonato al nostro spicchio di cielo da tempo immemore ormai. Eppure, stamattina, mille spilli di ghiaccio violentano la carne, e le ossa. Alzo il bavero del cappotto e, rovistando nella borsa, trovo i guanti neri, comprati qualche giorno prima, in un negozietto fuori mano, alla periferia del paese. Sono soffici. E caldi. Li indosso con cura.

Lo vedo guardarmi furtivamente. Non parla. Non una parola fino al piccolo bar, sulla strada di fronte.
Mi cede il passo, ed entriamo. Il locale è semi deserto. Poche anime, dislocate qua e là, senza una logica precisa. Sembrano comparse. Di passaggio. O persino ninnoli, improbabili, a rendere caratteristico questo antro di terra.
L'ambiente. Un po' vintage. Un po' naif. Forse retrò. Sicuramente suggestivo.
Scegliamo il tavolo sotto la vetrata. Ci dirigiamo istintivamente in quella direzione, senza che nessuno dei due abbia emesso il minimo suono.

- "Sei muto?"- gli domando - come fosse la cosa più naturale del mondo.
- "No" - mi sorride - "stavo solo osservandoti".
- "E cosa ti sembra di vedere?"
- "Tutto ed il contrario di tutto" - risponde.
- "Già sentita. Ritenta" - rispondo - col piglio sprezzante che mi fa antipatica a molti.
- "Definire è limitare".
- "Letto Oscar Wilde?"
- "Non avrei dovuto?" - mi chiede a sua volta.
- "Non si risponde ad una domanda con un'altra domanda" - lo rimbecco, spiazzata.
- "Già sentita. Ritenta"
- "Touchè"

Le note di un pezzo jazz galleggiano nell'aria. Sospese. Misericordiose. Un sax fa l'amore con la musica. Lei, cortigiana d'altri tempi, si lascia strappare le vesti. E, delicata, lo accoglie nel suo ventre. Infiniti amanti le hanno rubato il cuore. E la carne. Infinite storie hanno consumato le sue ossa.

Lo vedo picchiettare le dita sul tavolo. Ha delle belle mani. Ripenso ad un verso di Baricco, che recita: "Non c'è nulla di più bello delle gambe di un uomo, quando sono belle gambe". Io direi che non c'è nulla di più bello delle mani di un uomo, quando sono belle mani. E le sue sono bellissime.

- "Un penny per i tuoi pensieri" - mi dice.
- "I miei pensieri non valgono tanto" - rispondo - e mi chiedo perché mai io abbia preso a giocare a ribasso con me stessa.
- "Lascialo decidere a me" - insiste.
Sollevo appena le spalle, fingendo un disinteresse che sono ben lontana dal provare.
- "Pensavo a noi due. Qui. Seduti in un bar. Sconosciuti l'uno all'altra. Estranei a noi stessi."

Tossisce piano. Come a schiarirsi la voce. E le idee.

- "Hai paura di ciò che non conosci?" - mi chiede.
- "Ho paura di ciò che non capisco."

Ho l'impressione di essere stata catapultata in un film. Di quelli in bianco e nero. Dove c'è sempre una bella donna in attesa di un treno, alla stazione. Ed un uomo che, disperato, la rincorre.
E capita che lei ci salga, su quel treno. Convinta che lui l'abbia già dimenticata. Cancellata dalla vita. E dai suoi giorni.
Altre volte, invece, resta a terra. Inchiodata nello stesso punto. Inchiodata a sé stessa. I nervi tesi. L'anima pure. E si lascia raggiungere. E si lascia abbracciare. E poi si lascia persino amare.

La cioccolata calda arriva a spezzare la tensione del momento. Ha ricominciato a piovere. Sento l'acqua tamburellare piano sui vetri. Gli angeli fanno le boccacce, e lavano la polvere di questa terra maledetta. Tempo di pulizie, penso. E le labbra si piegano in un sorriso, che ha il sapore amaro della rassegnazione.
L'odore di terra bagnata è il più reale, e seducente, dei terrestri profumi. Mi inebria. E mi confonde.

La voce del sax colpisce i timpani. Imperitura e forte. In un attimo di improvvisata sincerità, abbandona la tradizionale riservatezza, ed inizia a raccontare la sua storia. Le sue ferite. Le cose che ha visto. Quelle che avrebbe preferito non vedere. I porti del mondo in cui approdava, senza mai gettare l'ancora. Incapace di legarsi a qualcosa, o qualcuno, troppo e troppo a lungo. I volti stampati a forza nella memoria. Indelebili. E veri. I sigari che ha fumato. E i bicchieri di wisky scolati d'un fiato. Così che la gola bruci. E bruci forte. Come se il dolore fisico potessa lavare l'anima dai peccati della carne.
Tempo di pulizie, ripenso.

- "Ti va di ballare?" - mi chiede.

Non rispondo. Faccio per alzarmi. E le sue mani hanno già afferrato le mie. Mi trascina nel mezzo di quella improvvisata balera, mentre fingo una dignitosa resistenza.
Avvolge la mia pelle in un abbraccio fermo, che pure sa di paura. E di aspettativa. Sogni infranti. Intatte speranze. Ritrovate gioie.
E anche di nutella. Che buffo. E di brioche francesi. E fragole con la panna. Caffè caldo. Pane, burro e marmellata. Un banchetto di emozioni.

- "Ti rivedrò?" - mi chiede, in un soffio.
- "E' l'augurio che faccio a me stessa" - rispondo.

Lo vedo voltarsi e, immobile, resto a guardarlo. Dopo poco, esco piano dal locale. Movimenti studiati, e lenti. Sono il remake di me stessa. Sembra quasi che il corpo debba abituarsi ad un ritmo nuovo. Vagamente sconosciuto. Parossistico. Inquietante. E la mente studiare un copione diverso da quello recitato fin'ora. Cambia la sceneggiatura. Alcuni attori escono di scena. La musica diventa quella metallica del rumore delle automobili. Povere le mie orecchie.

La strada è un acquitrinio. Uno stagno metropolitano. Mi lancio in una spericolata corsa tra le pozzanghere, e sorrido. In questi specchi d'acqua, assai improbabili, la luce si riflette, creando una magia di colori cangianti.
Da piccola credevo che l'acqua fosse una sorta di portale spazio-temporale. Un passaggio, sconosciuto a molti, verso una dimensione inesplorata.
Così, immaginavo folletti nevrotici abitare funghi giganti. Fatine dalle ali glitterate, degne del glamour nostrano. Gnomi buffi, e panciuti, lavorare nelle miniere, armati di pala e picozza. Retaggio culturale di Biancaneve e i sette nani, probabilmente. Solo che io facevo il tifo per la strega.
Al principe azzurro non ho mai creduto davvero. La storia della scarpetta di cristallo poi ... Cenerentola non l'avrebbe ritrovata, ma si sarebbe consolata con un vestito Gucci, da mille euro, sfoggiato in occasione di un convegno di alta finanza. Una sexy donna in carriera. Bellissima. Ed indipendente.

La gente mi sfila accanto silenziosa. Pare quasi non vedermi. Scansa la mia sagoma come fosse il più fastidioso degli ingombri. Non me ne curo.
Infreddolita, infilo le mani nelle tasche, e mi accorgo di un pezzettino di carta che prima non c'era, e adesso si. Lo raccolgo, incuriosita, e lo leggo con calma: "Mi ritroverai domani, tra i miti greci e i libri che narrano le più antiche storie d'amore. Non conosco neanche il tuo nome. Ma, infondo, cos'è un nome? Quella che chiamiamo rosa, anche con un altro nome manterrebbe intatto il suo profumo .. " ...

Sorrido. E' vero. Non gli ho neanche chiesto come si chiama.

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martedì 11 gennaio 2011

Scatoloni.

E forse il segreto non è sbarazzarsi di qualcosa, o aggiungere qualcos'altro. Forse, il segreto è fare spazio a tutto, a quello che c'è stato, a quello che c'è, a quello che verrà, persino a quello che vorremmo non arrivasse mai.
Forse, il segreto sta nel mettere ordine tra i pensieri, prima che tra le cose. E poi tra le persone. Concedere ad ognuna il giusto spazio. Che non sia troppo, ma nemmeno troppo poco. E' sufficiente che stiano comode. Ed è fondamentale che stia comodo tu per primo.
E tra gli scaffali della vita, ci saranno scatoloni fatti di occhi, e bocche, e profumi, e ricordi, che deciderai di tenere in un angolino buio, un po' nascosto, perché non ti andrà di doverci posare lo sguardo troppo spesso. Quello, sarà lo scompartimento del: "Poteva essere e non è stato".
E ci saranno scatoloni fatti di oggi, di adesso, di afferrabilissimo presente, che invece terrai ben esposti, a portata di mano.
Ed infine, ci saranno scatoloni di sogni, e progetti, e realtà che non sono ancora tali, ma lo diventeranno. Scatoloni pieni di domani, che un posto su quegli scaffali ancora non ce l'hanno, ma ce l'avranno, tra qualche tempo, quando sarà il momento.

giovedì 6 gennaio 2011

Sadness.


Carissima Befana, potresti, per favore, portarmi un po' di pietre nella calza, quest'anno? Vedi, ho inventato un nuovo gioco. Si chiama: "Prendi la mira e colpisci il bersaglio". Aggia cogliere nu poco e gent!! Poi, mi tornerebbe utile anche qualche macigno, una catapulta ( te ne sarà rimasta qualcuna in soffitta, no? Vanno bene anche quelle antiche, dei primi anni del Medioevo. Io non ho grossi vizi, mi accontento ), una fionda, un paio di frecce, e un fucile a canne mozze, se te ne avanzano.

Sempre affezionata, Antonia.


... ed ora mi infilo nel letto, mi tiro le coperte fin sopra la testa, a costo di rischiare il soffocamento, e spero che la tristezza di certi pensieri passi in fretta. Infondo, aveva ragione quella tipa quando diceva: "Domani è un altro giorno". Andrà meglio.