Per quasi trent’ anni, hai dormito nell’ oscurità impenetrabile di una camera da letto buia come la catacomba di un faraone egizio. Da quando ci sono io, accendi una lucina blu sopra lo scaffale dei libri, perché sai che nel nero della notte non riesco a prender sonno. Non c’è niente di romantico nel dormirti accanto. Nessun petto nudo su cui poggiare la testa, nessun bicipite dalla presa vigorosa. Indossi un pigiama a righe orizzontali che non riesce a farti sembrare meno magro; io uno a righe verticali che, al contrario, riesce perfettamente a farmi sembrare un divano; e ciascuno si volta sul proprio fianco. Schiena contro schiena. Come a proteggersi le spalle. Ogni tanto, allungo una mano e ti pizzico le labbra per farti smettere di russare. Perché tu russi. E probabilmente russo anch ’io. Però giochiamo al gioco del: “Io non russo. Non dire cazzate”. Ed è divertente. La mattina ti alzi prima di me, mi rimbocchi le coperte, mi dai un bacio sulla fronte e dici: “Fragolì, dormi un altro po’”. Ormai tutto il quartiere mi chiama "Fragolì", e io ti aprirei la calotta cranica per questo. Poi mi ricordo che Ti Amo e faccio un lungo, lunghissimo respiro zen. Ommmmmmmmmmm. A colazione mi guardi scettico mentre mangio grisbi alla nocciola e fettine di limone macerate nello zucchero. Io, invece, ti guardo come se fossi scemo mentre pesi i cereali nel latte e fai fuori una scodella di frutta con la stessa estatica dedizione che io riserverei ad una zuppa di cozze. L'ultimo cucchiaio di yogurt lo lasci sempre a me. Non per amorevole premura. No. Per spalmarmelo sulla faccia: mi tratti come una bambina di due anni pur di farmi ridere; mi scopi come una donna di ventotto per farmi godere. Aspetti in piedi due ore e mezza mentre sto facendo un colloquio ed hai spillato a mano, foglio per foglio, i miei 670 curricula. Mentre sono seduta alla scrivania, mi raggiungi da dietro, infili una mano - gelata come la morte che non conosce riposo - sotto la maglia e ti incazzi perché riesco comunque a non perdere la concentrazione. Quando mi arrabbio, sparo parole a raffica. Tu mi silenzi con uno sguardo. Prima di te, ci riusciva solo mio padre.
Cammino dentro le tue pantofole più grandi di sette numeri e ti ho fregato almeno quattro maglioni ed un numero imprecisato di calzini. Perché si, io metto i tuoi calzini. E ci sto calda dentro. Dentro questa storia, che addolcisce gli spigoli vivi del mio carattere senza addomesticarli. L'amore somiglia a noi, che somigliamo a noi stessi. Le favole di pasta di zucchero lasciamole ai paurosi della realtà.
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3 commenti:
Cara Antonia, la vostra amorevole quotidianità mi ha fatto quasi commuovere. Spero presto di poterMI raccontare la stessa magia. Perché le favole non esistono, ma forse, le belle storie si. :)
Delizioso quadretto -:)
Te lo auguro con tutto il cuore S. ^-^
Grazie Gugliemo :)
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